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lunedì 18 giugno 2018

Frosinone: neopromossa o neoretrocessa?


Battendo il Palermo per 2-0, il Frosinone si è guadagnato la promozione in Serie A. Assieme a Parma ed Empoli, i ciociari inizieranno la stagione 2018-19 con lo status di neopromossa. Cinicamente, però, ci sarebbe un altro modo di definire la squadra allenata da Moreno Longo, ovvero "neoretrocessa". Sì, perché la compagine che conquista un posto nella massima serie passando per i playoff, generalmente, retrocede dopo appena una stagione in A.

Lo evidenzia la tabella sottostante, relativa al rendimento in Serie A delle squadre neopromosse negli ultimi 10 anni:

- in rosso appaiono le squadre che sono tornate subito in B;
- in arancione quelle che hanno superato la stagione da matricola ma sono retrocesse l'anno successivo;
- in giallo quelle che hanno lasciato la massima serie allo scadere del triennio in A.


Il nome delle squadre, suddisive in base alla posizione con cui hanno ottenuto la promozione, è invece di colore nero se hanno scongiurato l'"effetto ascensore".




Il campione decennale permette di fare alcune constatazioni. Per la prima basta consultare le righe della tabella, anno per anno, e notare la costante presenza di nomi colorati. Nelle ultime 10 stagioni di Serie A, infatti, almeno una delle tre neopromosse ha sempre fatto ritorno nella serie cadetta. Un dato rilevante, considerando che - in quest'arco temporale - quello italiano è l'unico dei principali campionati europei in cui non si sono mai salvate tutte le neopromosse: in Francia è successo una volta, in Inghilterra due, in Spagna quattro e in Germania cinque.

Analizzando più nel dettaglio il campione riportato dalla tabella, risalta il rosso dominante della colonna relativa ai playoff. Come accennato in precedenza, le compagini dell'ultima colonna faticano molto a difendere il diritto di militare nella massima serie: negli ultimi 10 anni in ben 8 casi la squadra uscente dai playoff è retrocessa. Un altro dato preoccupante, a sostegno di chi ritiene che il numero delle neopromosse alla Serie A andrebbe ridotto, magari parallelamente a quello delle partecianti al campionato.

Ma la tabella, in realtà, suggerisce che il discorso relativo al passaggio da "neopromossa" a "neoretrocessa" non riguarda solo chi strappa il biglietto per la Serie A grazie alla post-season. Infatti, anche 12 dei 20 nomi presenti nelle colonne di prime e seconde della classe sono colorati. Il totale, relativo alle ultime 30 squadre presentatesi in A da neopromosse recita: 12 retrocesse al primo anno, 5 al secondo e 3 al terzo. Per cui, 20 delle 30 squadre sono state coinvolte: se almeno una torna subito in Serie B, di media, ce n'è un'altra che la emula - al massimo - nell'arco di tre stagioni. Generalmente, quindi, in un triennio si esaurisce l'esperienza di due terzi di ogni trio.

Lo conferma anche il grafico interattivo sottostante, che raccoglie i piazzamenti in Serie A, a partire da quando hanno lasciato la B, di tutte le neopromosse degli ultimi 10 anni. La prima schermata, accorpando il rendimento di 30 squadre, risulta di difficile lettura, ma scorrendo le annate dalla parte superiore del grafico è possibile consultare i vari posizionamenti e cogliere qualche spunto interessante.



L'analisi delle posizioni ottenute dalle neopromosse italiane evidenzia le enormi difficoltà di quest'ultime e marca la distanza con i principali campionati europei. Ad esempio, la Serie A è il campionato con più squadre che hanno ottenuto due promozioni negli ultimi 10 anni: ben 6 bis (record ex aequo con la Premier League, uno in più della Ligue1, due in più di Bundes e Liga). Ciò significa che, dopo il più o meno immediato ritorni in B, l'effetto ascensore le ha riportate in A in poco tempo. Ma in 5 casi neppure al secondo tentativo queste squadre sono riuscite a confermare la propria partecipazione alla massima serie.

E se è risultato così difficile rimanere in Serie A, lo è stato maggiormente affermarsi a un livello più alto. Lo confermano i dati relativi alle squadre che hanno chiuso nella top 10 l’anno da matricola. In Italia, infatti, in appena due delle ultime dieci stagioni le neopromosse hanno varcato il confine della parte destra della classifica (il Bari e il Parma nel 2009-10, l’Hellas Verona nel 2013-14). Anche in questo caso si tratta del dato più basso tra le principali leghe, in cui negli ultimi anni ci sono state neopromosse che si sono qualificate per l’Europa League o addirittura per la Champions.

A questo punto l’analisi interna lascia più ombre che luci e il benchmarking europeo acuisce l’oscurità. Risulta, pertanto, necessario provare a interpretare queste constatazioni statistiche. Una prima deduzione, la più semplice, è che tra la A e la B ci sia un gap piuttosto ampio che le neopromosse patiscono particolarmente. Tale divario tecnico, difficile da colmare, probabilmente è legato anche alle differenze relative agli introiti tra le due categorie. Chi si affaccia alla Serie A, lo fa partendo da una posizione di subalternità rispetto alle società già consolidate nella massima competizione.  


Soprattutto dal punto di vista economico, perché i risultati di bilancio risentono dei risultati sportivi. Così, la rosa che conquista la promozione (che già di per sé spesso è insufficiente) non di rado si impoverisce perché squadre con potere d’acquisto superiore si rinforzano prendendo i migliori talenti delle neopromosse. E a volte l’organico viene ridimensionato anche senza cessioni, perdendo i giocatori in prestito che vengono richiamati alla base. Non a caso, il valore di mercato minimo tra le 20 squadre della massima serie A è generalmente di una società proveniente dalla Serie B


La disparità di introiti tra le due categorie fa sì che alle neopromosse spesso non resti che vendere i calciatori valorizzati, giovarsi dei più lauti diritti tv della A e tornare in Serie B. In questo viaggio di ritorno, però, subentra il bonus del paracadute finanziario. Si tratta di una somma complessiva, che può arrivare a 75 milioni di euro, da spartire tra le retrocesse in base agli anni di permanenza nella massima serie. Un meccanismo che, in teoria, permetterebbe di ammortizzare i minori ricavi garantiti dalla B e favorire il ritorno immediato in A. Quest’espediente, però, a voler pensar male pare uno dei motivi per cui le neopromosse non fanno grandi sforzi per provare ad affermarsi in Serie A. 


I risultati precedentemente descritti suggeriscono che per molte squadre la promozione sia un traguardo da cui monetizzare subito, accettando anche di retrocedere per poi riprovarci dopo un anno, magari rinnovando il gruppo. Per le piccole società il salto di categoria è problematico perché per allestire una rosa competitiva occorre aumentare il monte ingaggi complessivo e fare acquisti all’altezza. Non tutte sono in grado di farlo. Infatti, le poche squadre che negli ultimi anni sono riuscite a consolidare il proprio progetto dopo la promozione in A sono il Chievo di Campedelli, l’Atalanta di Percassi e il Sassuolo di Squinzi. Ovvero proprietà economicamente forti, capaci di rinforzare la rosa e investire le cifre che richiede la massima serie. Per queste società, la promozione ha segnato una tappa importante di un processo di crescita ambizioso. Per molte altre, soprattutto negli ultimi anni, si è trattato invece solo di un’esperienza fugace (per la gioia di Claudio Lotito).


L’ultima constatazione sembrerebbe fornire un assist a coloro che sostengono l’avvento di un calcio con sbarramento all’americana, in cui può partecipare ai tornei professionistici solo chi possiede coperture, finanziarie e di pubblico, oltre che stadio di proprietà e altri asset. Se così fosse, avrebbero accesso alla Serie A solo una parte delle squadre che sudano in B per guadagnarsela. Probabilmente non è la soluzione migliore, di certo non la più meritocratica, per quanto coerente con le difficoltà che il salto di categoria impone. Senza dubbio, però, l’applicazione di regole più stringenti riguardo al piano economico e alla disponibilità di strutture adeguate permetterebbe di migliorare il livello della Serie A. 


Così come, probabilmente, con due categorie da 18 squadre e, quindi, meno retrocessioni e promozioni (o spareggio tra terz’ultima di A e terza di B, come avviene in Germania) si potrebbe vedere una Serie A maggiormente equilibrata. Accogliere in A squadre “nate morte” o già agonizzanti significa, infatti, allargare la forbice tra testa e coda della classifica e, quindi, abbassare il livello della competitività. In tal senso, andrebbe ripensata anche la ripartizione dei diritti tv e degli introiti in generale. Pena l’appiattimento del valore, sportivo e non, del nostro campionato e del movimento calcistico italiano.

#DAM 

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